Per coloro che stanno affrontando problemi correlati all’alcol, ma anche per i loro familiari, scoprire che esiste un ambiente di sostegno e di condivisione in cui sentirsi accettati e compresi senza giudizio, può essere un regalo prezioso. Stiamo parlando dei Club Alcologici Territoriali (CAT), luoghi di ritrovo dove le persone possono discutere dei loro problemi legati all’alcol, ma non solo, condividendo le proprie esperienze e ricevendo sostegno reciproco.
COSA SONO I CLUB?
I Club Alcologici Territoriali, definibili come comunità multifamiliari, rappresentano momenti di incontro, scambio e confronto settimanale tra persone e famiglie. Nati per affrontare i problemi di alcol, sono oggi capaci di accogliere tutte le difficoltà e le sofferenze legate ad altri stili di vita a rischio come fumo, sostanze illegali, gioco d’azzardo, internet addiction e, più in generale, il disagio legato alla vulnerabilità della condizione umana e agli squilibri ecologico sociali delle comunità.
«I Club diventano presidio nella comunità per promuovere un cambiamento culturale e sono considerati lo strumento principale dell’Approccio Ecologico Sociale – spiega Marco Orsega, presidente dell’Associazione Italiana dei Club Alcologici Territoriali (AICAT), associazione di volontariato che promuove e coordina le attività dei Club–, ideato e sperimentato efficacemente nella seconda metà del secolo scorso dallo psichiatra croato Vladimir Hudolin (1922-1996), per affrontare i problemi alcol correlati in una prospettiva di promozione della salute dell’intera comunità. C’è una grande differenza con l’approccio utilizzato dagli “alcolisti anonimi”. Questi ultimi tendono infatti a medicalizzare questa problematica e distinguono il percorso dei cosiddetti alcolisti da quello dei loro familiari. La parola alcolista è per noi stigmatizzante, per questo abbiamo preferito non utilizzarla più, e poi sarebbe riduttiva perché nei Club sono accolti tutti e non c’è bisogno di alcuna diagnosi o valutazione».
CHE COS’È L’AES?
Al contrario dell’approccio medico classico che tende a inquadrare i problemi alcol correlati esclusivamente in una dimensione biologica e/o psicopatologica, «l’Approccio Ecologico Sociale li legge in chiave sistemica e relazionale: si tratta di comportamenti, esattamente come il gioco d’azzardo o l’uso di sostanze stupefacenti, che sono espressione della comunità che li genera», specifica la dottoressa Tiziana Fanucchi, Psicologa, Specialista in Psicologia della Salute, ASST Fatebenefratelli Sacco, e vicepresidente AICAT fino al 2022. «Hudolin definiva il cosiddetto alcolismo/alcoldipendenza, oggi più correttamente denominato Disturbo da Uso di Alcol, come uno stile di vita capace di determinare disagi fisici, psichici e sociali. Non parlava di una malattia, ma di un comportamento legato a diversi fattori, sia interni sia esterni all’uomo, sotto la spinta della cultura sanitaria e generale della comunità. La nostra è una cultura che celebra ed incentiva il consumo di alcol minimizzandone i rischi, attribuendo i problemi solo a chi non è capace di controllarsi, pertanto in qualche modo è da colpevolizzare, emarginare, curare. Hudolin ritiene invece che i problemi legati al consumo di alcol riguardino tutta la popolazione e che le situazioni gravi costituiscano solo la punta di un iceberg, l’estremo di un continuum di cui tutti facciamo parte. Per ridurre l’impatto dei problemi alcolcorrelati pertanto, è necessario ridurre il consumo di alcol di tutta la popolazione e questo significa sensibilizzare e stimolare tutti ad una maggiore consapevolezza e ad un cambiamento anche della cultura esistente, che Hudolin chiama spiritualità antropologica. Queste indicazioni sono sostenuta anche dall’OMS, di cui Hudolin era infatti consulente sull’alcol».
OLTRE IL CONCETTO DI MALATTIA
Inquadrare la dipendenza come una malattia cronica recidivante è prassi tra gli operatori sanitari, tuttavia non c’è un consenso nella comunità scientifica rispetto alla sua definizione. Anche il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5) ha abolito il concetto di dipendenza, così come quello di abuso, per la sua incerta definizione e la connotazione potenzialmente negativa. Ha invece introdotto il concetto di disturbo da uso di alcol misurato su un continuum di gravità che va da lieve a moderato a grave. Ciò era già sostenuto da Hudolin, che da tempo ribadisce l’importanza dell’approccio di popolazione e la necessità di spostare l’attenzione dal tradizionale interesse sanitario nei confronti del cosiddetto alcolismo, ai consumi di alcol di tutta la popolazione.
«È importante non vedere i Club come l’ultima spiaggia per intervenire sui problemi alcolcorrelati – ribadisce Tiziana Fanucchi –, come il tentativo finale a cui guardare in quei casi per i quali “non c’è speranza” o, al contrario, il luogo dove inviare le persone con problemi di alcol e altro, solo dopo averle trattate nei servizi, una volta inquadrata e gestita la situazione. E parlo anche in qualità di psicologa che ha lavorato per molti anni in un servizio di alcologia. I club sono un’opportunità da offrire fin da subito non solo alla persona, ma anche a tutta la sua famiglia e alla comunità, affiancati, se necessario, a interventi di tipo medico e specialistico».
COME SONO ORGANIZZATI I CLUB?
Ogni Club ha un servitore insegnante, ovvero una persona formata alla metodologia dell’Approccio Ecologico Sociale che, indipendentemente dalla professione che svolge, si mette al servizio delle persone e delle famiglie nella comunità, creando le condizioni per avviare e stimolare processi di cambiamento nello scambio relazionale del Club. Gran parte delle persone che hanno in passato avuto problemi alcol correlati riescono a trasformare la difficoltà in risorsa e spesso si trovano a rivestire il ruolo di servitori insegnanti all’interno dei Club. Le famiglie che fanno parte dei club sono solitamente una decina, e la maggior parte di queste continuano a prendere parte agli incontri anche una volta superate le problematiche legate all’alcol.
«Purtroppo riuscire a intercettare tutte le persone e le famiglie con problemi alcol correlati non è possibile», spiega Marco Orsega. «I membri che ne fanno parte possono essere indirizzati a noi dai centri alcologici ai quali si rivolgono spontaneamente per chiedere supporto, o che vi arrivano per altri motivi come incidenti stradali o ritiro della patente, oppure tramite il numero verde di supporto o ancora per conoscenza diretta di altri membri dei Club. Sarebbe importante lavorare sempre di più sul territorio per intercettare i problemi alcol correlati il più precocemente possibile, prima che siano compromesse le relazioni familiari e sociali. In un clima di accoglienza empatica, di condivisione della propria esperienza umana e del proprio vissuto e di ascolto dell’altro, ognuno può sperimentare nel Club un percorso di cambiamento di stile di vita e di relazione, con i propri tempi, superando l’egocentrismo e adottando uno spirito ecologico sociale. Dal legame con l’alcol e altre sostanze, o con la stessa sofferenza, nel Club si impara a mettere in discussione sé stessi, a vivere e costruire legami umani positivi, emozioni, sguardi e abbracci che pongono le basi per una crescita e maturazione individuale, familiare e comunitaria. I Club, e con essi le associazioni in cui si costituiscono, diventano presidi di salute nel territorio e nella comunità, creando ambiti di riflessione, di pratica, di condivisione, di partecipazione attiva, di advocacy, al di là delle appartenenze politiche, religiose, razziali, di genere».
Continua a leggere articolo su www.fondazioneveronesi.it >>